fabio
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Dopo qualche giorno di pacifica accettazione sta creando dibattito la scelta di Twitter (e altri social minori) di sospendere l’account di Donald Trump per violazione del regolamento della piattaforma.

Tralasciando il fatto che (quasi) nessuno conosce il regolamento di Twitter – ma tutti lo accettiamo – ha suscitato in molti curiosità (e vari sentimenti) che una società privata riesca ad estromettere un personaggio che al momento conserva ancora il potere di lanciare attacchi nucleari.

Ma perché fa impressione? Perché siamo abituati al fatto che Cesare, il nostro potente condottiero, possa fare tutto ciò che non gli è vietato. La questione per me finisce un po’ qui: Cesare ha fatto cose che gli sono vietate, quindi il suo account è stato sospeso.

La valutazione è stata presa unilateralmente, questo è chiaro, ma è così per tutti gli utenti che, per Twitter, forse sono tutti uguali. Ma Twitter sta limitando la libertà di espressione di Cesare? No, Cesare può usare tutti i mezzi che vuole, compreso tra l’altro Twitter visto tra l’altro che l’account ufficiale dell’Ufficio che Cesare ricopre è ancora operativo.

Su questo c’è anche un’altra questione, per noi più di stile ma forse per gli americani più sostanziale: è corretto che Cesare utilizzi unicamente il suo account personale e non quello dell’Ufficio che ricopre? Non è già questo il primo passo di una deriva autoritaria che mette la persona prima dell’Istituzinoe che ricopre? Ai tempi la questione venne abbandonata poco dopo l’insediamento, ma ricordo che mi incuriosì molto e ora è stata rispolverata.

Le considerazioni sulla sospensione dell’account Twitter di Cesare che sento/leggo più spesso sono più o meno queste:

  1. Com’è possibile che la persona più potente degli Stati Uniti non riesca a riprendere il controllo del suo account?
  2. Ora si crea un precedente, ora dovranno sospendere anche altre persone
  3. Internet non è un luogo libero

Sulla prima la risposta è semplice: l’account di Cesare è materialmente di proprietà di Twitter ma anche ammesso che Cesare decida di mandare i suoi soldati a occuparne la sede, il livello di sicurezza informatica che si frappone fra i suoi soldati e l’account è il medesimo che difende gli armamenti nucleari di cui sopra, forse anche superiore. Almeno questo è quello che ci possiamo aspettare dall’azienda in cui Moxie Marlinspike ha ricoperto il ruolo di head of security.

Sulla seconda possiamo dire che parlare di precedente è improprio, gli account sospesi da Twitter sono migliaia ogni giorno e riguardano ogni tipo di illecito rispetto al regolamento: revenge porn, immagini violente, incitamento alla violenza, truffe, spam, furti d’identita e così via. Anche per questi il procedimento è unilaterale. Sarebbe forse il caso di parlare piuttosto di “precedente illustre”, esattamente come definiremo in futuro l’assalto al Congresso del 6 gennaio se si dovesse ripresentare. Alla fine bisogna capire che avere un account Twitter non è un diritto, è il risultato di un contratto fra privati (noi e Twitter).

Il terzo punto, che si lega al precedente, si fonda su un errore indotto dalla consuetudine: internet è i social network. È chiaro, anche solo per il fatto che state leggendo da questa pagina, che non è così.

Il fatto è che i social network (poi media) – essenzialmente Twitter, Instagram, Whatsapp e Facebook – occupano una grandissima fetta del tempo passato online da parte di un utente medio, al netto eventualmente dei giochini. Questo limita moltissimo la percezione di cosa sia, cosa può fare e quante potenzialità inespresse abbia lo strumento “Internet”. Internet è un’altra cosa ed è – almeno dalle nostre parti – accessibile a chiunque, semplicemente richiede più impegno per cercare, scavare, trovare, informarsi, leggere (anche più di 140 caratteri), scrivere, fotografare, commentare, etc.

I social ci propongono un’esperienza di utilizzo più facile ma anche più limitata: per prima cosa ci chiedono di accettare le loro regole, poi in cambio ci forniscono un’interfaccia e una user experience accattivanti e totalmente standardizzate che ci danno l’impressione di conoscere o avere il controllo di tutto facendo passare spesso in secondo piano la qualità dell’informazione che riceviamo. Infine ci danno il colpo di grazia proponendoci i contenuti secondo loro più adatti a noi in base a ciò che facciamo, leggiamo, scriviamo, etc. Poi ogni tanto qualcosa va storto – ci ricordamo tutti di Cambridge Analytica – ma non è colpa di nessuno…

Questo flusso informativo pressoché costante è la loro ricchezza, ma è anche il sogno – materializzato – di un’industria dell’informazione di bassa qualità che ha avuto quasi all’improvviso una disponibilità illimitata di contenuti a costi bassi o nulli. Pensiamo a quante volte hanno fatto notizia a sé proprio i tweet di singole persone oppure al fatto che diventano notizia sulle homepage dei quotidiani video presi da youtube risalenti a giorni/settimane prima senza riconoscimenti di alcun tipo per le fonti al solo scopo di riempire spazi.

Il giornalismo è il settore che più di tutti dovrebbe interrogarsi sulla questione dell’utilizzo dei social perché è quello che ne subisce i maggiori danni: questo è solo e unicamente il tempo dei messaggi brevi e slogan o c’è ancora spazio per contenuti strutturati? E se sì come farli arrivare?

Piccola considerazione, visto che ne ho lette di simili: se sentite qualcuno parlare di regolamentazione dei social network/media scappate perché non ha capito cos’è successo negli scorsi quindici anni, come funzionano e forse è molto amico di Cesare o forse strizza l’occhio a paesi e realtà che già ora li hanno “regolamentati”.

Uno strumento che permette di arrivare direttamente – senza intermediazione – a un quarto della popolazione della Repubblica è il sogno di qualsiasi Cesare ma proprio Cesare dovrebbe avere chiaro che questo non avviene perchè egli è Cesare, avviene grazie all’arma che impugna e se Cesare ne diventa volontariamente schiavo chi deve biasimare se non si sente più così tanto Cesare?